4.2.13

Corruzione sportiva nella Grecia antica

Sul numero di “alias” del 2 febbraio 2013 Pasquale Coccia intervista a Roberta Sevieri, docente di letteratura greca all'università di Trento e autrice del volume Epinici (Edizioni La vita felice), sui rapporti tra politica, corruzione e sport nell’antichità. Riprendo qui gran parte dell’articolo. (S.L.L.)

Qual'era il rapporto tra lo sport e la corruzione nell'antica Grecia?
I primi corrotti erano i giudici. Fin dalla prima edizione dei giochi olimpici, nel 776 a. C., per gli atleti, tutti aristocratici, la vittoria era importantissima sotto vari aspetti. I vincitori di una gara, attraverso l'edificazione di una statua o la composizione di un canto, l'epinicio, che celebrava l'impresa sportiva, si garantivano l'immortalità nel ricordo futuro. Inoltre, la vittoria sportiva rappresentava un'occasione di celebrità anche per la famiglia aristocratica cui apparteneva il vincitore, per gli amici delle famiglie alleate, e infine per la città, il popolo. Tutti avevano la loro fetta di notorietà, come avviene oggi.
Pausania (II sec. a.C.), nella sua opera Periegesi della Grecia, una sorta di guida turistica, in visita a Olimpia, ricorda che all'ingresso dello stadio vi erano delle statue chiamate Zanes, costruite con le multe inflitte agli atleti che avevano tentato di corrompere i giudici o gli altri concorrenti per garantirsi la vittoria. Le prime Zanes, sei in tutto, furono costruite nel 338.C., poi a parte alcuni altri episodio di corruzione denunciati pubblicamente, vi fu un vuoto fino all'anno 12 d.C., non perché non vi fossero stati altri casi di corruzione, ma perché corrotti e corruttori si erano fatti più accorti.
Pausania contò circa 200 Zanes edificate a Olimpia, un numero che ci dà il termometro del livello di
corruzione diffuso tra gli atleti e i giudici di gara.

Perché il connubio forte tra sport e politica fin dall'antica Grecia?
Lo sport, rispetto ad altri ambiti come il teatro, pur molto presente nella vita pubblica greca, era più coinvolgente sul piano emotivo. La finalità «politica» era quella di celebrare la vittoria in pubblico, perché tutti sapessero. Vi erano festeggiamenti pubblici, celebrazioni che duravano più giorni, al centro dei quali c'era il campione olimpico, perciò per vincere una gara i governanti di allora erano disposti a tutto.

Tiranni e imperatori governavano con la forza, perché avevano tanto bisogno di vincere per ingraziarsi il loro popolo?
Uno come Ierone, tiranno di Siracusa, noto per la sua ferocia, aveva un gran bisogno di vincere una gara olimpica per un duplice motivo: voleva accreditarsi presso la comunità greca, perché si sentiva provinciale, viveva il complesso della grecità periferica, perciò sentiva il bisogno di darsi una veste, che oggi chiameremmo internazionale.
Inoltre, proprio perché tiranno, dunque solo nelle mura del Palazzo, sapeva che la vittoria a Olimpia e la celebrazione pubblica, avrebbero coinvolto la comunità della città che governava, un modo per garantirsi il buon nome presso i posteri. La vittoria era sua, ma aveva un significato se il pubblico gliela riconosceva. Perciò uno come Ierone, ma i casi come il suo erano tanti, era disposto a tutto, pur di vincere.

Altri casi di corruzione sportiva?
Era in voga presso le famiglie aristocratiche partecipare alle gare ippiche, quella degli Alcmenoidi vinceva spesso. Un caso che merita attenzione fu quello di Milziade, figlio di Cimone, che vinse all'olimpiade del 532 a.C. e doppiò il primo posto alle olimpiadi successive. In quell'occasione Cimone cedette la vittoria della sua quadriga a Pisistrato, tiranno di Atene, allora non veniva premiato il fantino, che di solito era uno schiavo, ma il proprietario della scuderia. Perciò fu sufficiente dichiarare che il proprietario dei cavalli fosse Pisistrato per attribuirgli la vittoria. In cambio Pisistrato si impegnò a far tornare Cimone dall'esilio, uno scambio di favori, che ieri come oggi è assai frequente nella politica.

Nei tuoi studi ti sei occupata di epinici, che cos'erano?
Era un canto o un'opera che celebrava la vittoria atletica del vincitore. Come genere letterario durò poco tra il VI e la fine del V secolo a.C. L'epinicio veniva scritto su commissione del vincitore, cantato da un coro all'aperto, in un ambiente festoso, accompagnato da danze. Di solito si sceglieva un luogo pubblico di rilievo in modo tale che tutti potessero vedere, apprezzare e sapere che i potenti di turno avevano vinto una gara olimpica. Il coro e le danze richiamavano un grande pubblico, lo stesso che oggi si riversa nelle strade a seguito della vittoria della nazionale di calcio o della propria squadra per la conquista dello scudetto o della Champions League. Allora il vincitore si mostrava in pubblico e assisteva alle celebrazioni, come oggi la squadra vincente fa il giro della città su un pullman scoperto o sfila allo stadio davanti al pubblico dei tifosi.
L'epinicio rappresentava una forma di comunicazione di massa, era il trionfalismo della competizione atletica. La lettura dell'epinicio avveniva anche a corte, era riservata a un pubblico più colto, a quei tempi era un modo per «fare salotto».

Qual è il rapporto tra l'epinicio commissionato ai poeti dal vincitore olimpico e il giornalismo sportivo di oggi?
Nell'antica Grecia il rapporto tra il committente e il poeta era molto chiaro, il vincitore ordinava l'opera e l'altro scriveva, dietro lauto guadagno. Oggi tutto è molto più ambiguo, i toni dei giornalisti sportivi sono trionfalistici, c'è il tifo, sono di parte, manca una descrizione oggettiva di quello che accade in campo. Chi scriveva un epinicio, pur esaltando le doti atletiche del vincitore-committente, si poneva dei limiti, quelli voluti da Zeus, nell'ode ricordava al vincitore olimpico che la vita era breve, che la gloria era temporanea. Oggi la stampa sportiva contribuisce enormemente all'immagine del calciatore famoso, ricco e attorniato da veline, il campione che vive una sorta di immortalità nell'immaginario dei tifosi. I calciatori si sentono onnipotenti, salvo essere scoperti nel calcio-scommesse e manifestare tutte le loro debolezze, come pure gli atleti, o ciclisti come Armstrong, che poi si scoprono essere dopati.

Negli epinici vi era una forma di scrittura complice?
Era noto a tutti che Bacchilide, nipote di Simonide, insieme a Pindaro, tutti e tre scrittori di epinici, fossero ben pagati dai vincitori di turno, perciò il mito fondante dell'epinicio era l'inganno. Gli autori esaltavano le qualità sportive dei vincitori, ma tacevano su alcune scorrettezze commesse, perché allora l'idea dominante era che vincere autorizzava a ricorrere anche a mezzi illeciti. L'epinicio aveva una funzione celebrativa, non informativa, perciò la correttezza della descrizione, della cronaca dell'evento sportivo passava in secondo piano, anche se era raro che mentissero del tutto. Oggi si assiste a mistificazioni enormi, soprattutto nella politica, e lo sport è il suo riflesso, fino allo stravolgimento totale di quel che accade.

Dallo sport alla politica i corruttori e i voltagabbana non nascono mica oggi?
Certamente, però nell'antica Grecia erano più raffinati, erano più politici. Un esempio è quello di Alcibiade, che alle olimpiadi del 416 a.C. fece correre 7 quadrighe a suo nome, ottenendo il primo, il secondo e il quarto posto. In nome della vittoria olimpica, chiese e ottenne dagli ateniesi di essere nominato uno dei comandanti delle tre flotte, che avrebbero salpato alla conquista della Sicilia, ma la spedizione fu fallimentare. Alcibiade era un politico, che più volte era passato dagli ateniesi agli spartani, per tornare infine con gli ateniesi, un voltagabbana, però i passaggi da un fronte all'altro li faceva con più stile. Oggi mi sembrano tutti un po' più rozzi.

"alias - il manifesto", 2 febbraio 2013

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